La morte di Maurizio Costanzo mi ha fatto ripensare alla famosa trasmissione in staffetta con Santoro dedicata alla lotta alla mafia. Samarcanda andava in onda dal Teatro Biondo di Palermo, il Maurizio Costanzo Show, ovviamente, dal Teatro Parioli.
Tra Palermo e Roma erano presenti numerosi ospiti. Tra gli altri, Leoluca Orlando, un giovanissimo Totò Cuffaro (il quale non era ospite ma intervenne dalla platea del pubblico), Giovanni Falcone, Rita Dalla Chiesa, Claudio Fava, Giovanni Impastato e l’avvocato Alfredo Galasso.
La trasmissione è datata 26 settembre 1991 e, tra le altre cose, ha fatto registrare uno scontro verbale tra Falcone e Orlando e anche tra lo stesso Falcone e Galasso, il quale disse al giudice – che era già a Roma alla direzione degli Affari Penali, chiamato da Martelli dopo una lunga teoria di umiliazioni e vessazioni che ebbe a sopportare a Palermo – “Giovanni Falcone farebbe bene ad allontanarsi il prima possibile dai palazzi ministeriali perché mi pare che l’aria non gli fa bene proprio […] Giovanni, non mi piace che stai dentro il palazzo del Governo, non mi piace”. Chi volesse vedere il video completo può andare su Youtube.
Intervistato dall’Adnkronos oltre vent’anni dopo, Galasso dichiarò che “Continuo a essere convinto tuttora che se Giovanni Falcone fosse rimasto a Palermo sarebbe stato meglio anche per lui e per la sua difesa personale. Ciò che non sapevo all’epoca e che mi portò ad avere questo tono polemico con il giudice Falcone, era che Giovanni nell’immediato non ha potuto dirlo, ma aveva raggiunto un punto di rottura con l’allora Procuratore di Palermo, Pietro Giammanco. E a quel punto Falcone decise di raccogliere l’invito dell’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli e lavorare a quel livello a Roma”.
Ciò che non dice Galasso è che pochi giorni prima della trasmissione, presentò assieme a Leoluca Orlando e Carmine Mancuso un esposto al CSM dove si chiedevano spiegazioni su presunti insabbiamenti da parte della procura palermitana nelle indagini per i delitti Reina, Mattarella, Insalaco, Bonsignore e su molto altro.
E’ solo l’ultimo attacco da cui Falcone dovette difendersi: nel 1990 sempre Orlando lo accusò – sempre a Samarcanda – di tenere certe carte nei cassetti invece di utilizzarle per indagare su delitti eccellenti. E dovette anche difendersi da parecchie illazioni a mezzo stampa, per aver denunciato per calunnia il pentito Pellegriti che addebitò falsamente a Salvo Lima la responsabilità di una serie di omicidi. Il giudice fiutò subito la mendacità delle dichiarazioni del pentito e lo denunciò, vedendosi accusato poi, sulla stampa, di essere il protettore di Lima e Andreotti. Invece aveva semplicemente fatto il suo lavoro: aveva indagato, lo aveva fatto bene e aveva scoperto la menzogna.
Secondo Martelli, intervistato da Santoro nel 2009, Orlando ce l’aveva con Falcone perchè “aveva riarrestato l’ex sindaco Vito Ciancimino con l’accusa di essere tornato a fare affari e appalti a Palermo con sindaco Leoluca Orlando, questo l’ha raccontato Falcone al Csm per filo e per segno”.
Falcone dovette dunque difendersi davanti al Consiglio Superiore della Magistratura da queste e altre accuse contenute nell’esposto: venne audito il 15 ottobre 1991 e quelli che seguono sono stralci davvero molto interessanti delle dichiarazioni che fece mettere a verbale.
Il giudice, dopo aver confutato con precisione i punti dell’esposto, si lascia andare ad amare considerazioni sul livello della lotta alla mafia nel nostro paese.
E sono questi pensieri che mi interessa riproporre.
Sul terzo livello.
Non esistono vertici politici che possono in qualche modo orientare la “politica” di Cosa Nostra. E’ vero esattamente il contrario. Credo di averlo dimostrato in più occasioni. Il terzo livello, inteso quale direzione strategica, che è formata da politici, massoni, capitani d’industria, eccetera e che sia quello che orienta Cosa Nostra, vive solo nella fantasia degli scrittori: non esiste nella pratica. Esiste una situazione estremamente più grave e più complessa, perché più articolata.
Affermo che non parlare del terzo livello non è un fatto benefico a favore della classe politica, perché magari ci fosse un terzo livello! Basterebbe una sorta di Spectre, basterebbe James Bond per togliercelo di mezzo. Ma non è così. Abbiamo dei rapporti molto intensi, molto ramificati e molto complessi. Questo è il punto cruciale su cui bisogna lavorare. Questo ho sostenuto allora e devo dire che questi anni mi hanno sempre più rafforzato in questa idea.
Su Orlando e la cultura del sospetto.
E’ sul punto metodologico nascono i dissensi tra me e Orlando. Non si può investire della cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, la cultura del sospetto è l’anticamera del khomeinismo.
Non si può andare avanti in questa maniera, questo sia chiaro, non è possibile: questo è un linciaggio morale continuo. Io sono in grado di resistere, ma altri colleghi un po’ meno. Io vorrei che voi vedeste che tipo di atmosfera c’è per adesso a Palermo. Ma veramente non lavorano più! Si trovano in una situazione estremamente demotivata e delegittimata, sono guardati con estremo sospetto da tutti.
Diceva Dalla Chiesa, nel suo diario, che Palermo è una “città di prestigio” e lui stesso ha messo questa frase bellissima fra virgolette.
Facendo in una certa maniera, come fanno oggi loro, le conseguenze saranno incalcolabili. Ma veramente incalcolabili.
Sul caso Pellegriti e sui limiti del pentitismo.
Dalle stesse dichiarazioni di Pellegriti viene fuori la prova del suo mendacio. Ma il nostro dramma, il guaio di tutto quanto è avvenuto in Italia per quanto attiene alla gestione dei pentiti è stato di non riuscire a discernere quello che è utile e quello che non è utilizzabile.
Io ricordo che un giorno due pentiti, addirittura, dicevano fra di loro, si contestavano chi è che dovesse assumersi la responsabilità non dell’omicidio, perché l’omicidio se lo erano assunti tutti e due, ma la responsabilità di avere sparato. Quelli dicevano: “ho sparato io”, “ma no, ho sparato io”, “ah, va bene, hai sparato tu”.
Sulla lotta alla mafia.
Se ne parla fin dalla relazione Sonnino-Franchetti del 1875 di questi rapporti tra mafia e politica, di questa specificità del fenomeno mafioso.
Nella relazione alla Commissione Antimafia del 1972 – quella presieduta da Cattanei – si pone l’accento proprio sul fatto che la mafia esiste prima dello stato unitario, ma che è riuscita a sfruttare tutte le storture, tutte le magagne dello sviluppo economico. Non mafia frutto del sottosviluppo del Mezzogiorno d’Italia, ma mafia che sa adeguatamente trasformarsi e seguire tutto lo sviluppo della società siciliana e non solo siciliana.
Io penso che la istituzione, il mantenimento di strutture salde della repressione, della forza statale in zone in cui, proprio dall’assenza dello Stato si sono giovate per giungere a certi risultati, ecco, tutto questo dona delle precondizioni per consentire lo sviluppo e il decollo del Mezzogiorno d’Italia.
Quindi sono convinto non che la via giudiziaria sia una bella scorciatoia per risolvere i problemi politici, gabellandoli come problemi di mafia, tutt’altro, ma che la presenza dello Stato è fondamentale in una zona per combattere certi fenomeni che, prima che economici e sociali, sono fenomeni di squisita pertinenza dell’area criminale. Sono anche un fatto sociologico, ma sono soprattutto e prima di tutto un fatto penale. Se così è, io credo che la risposta a questa difficilissima domanda non possa che essere interlocutoria fino a quando non ci renderemo conto che un problema serio come la mafia deve essere affrontato in maniera altrettanto seria, fino a quando non sì comprenderà che la mafia non sì può combattere a correnti alternate.